Il giardino è l'anima


"In quel giardino io ero nella Psiche, mi accorgevo che tutto era psicologia intorno a me, tutto parlava psicologicamente. Il mondo è come un giardino in quanto si manifesta; è un mondo di cose come alberi, sentieri, ponti; è anche un mondo di intuizioni, di metafore, di insegnamenti - a disposizione di ogni anima che passa - dati con la facilità dei riflessi sul lago: il giardino rende più intellegibile e più bella l'interiorità dell'anima."


(James Hillman)

Non pensare...Balla!

Immagine dal blog Starwalls

Il non pensare 

A volte l’esperienza ci mostra come il vivere intensamente corrisponda a un momentaneo abbandono della nostra facoltà di classificare, controllare, giudicare, cioè di pensare.
Vivere la vita o scriverla, esserne partecipe o pensarla: queste sono alternative esistenziali con cui gli artisti e i filosofi fanno i conti tutti i giorni.
Ma il segreto è non pensare.
Il pianista cerca i suoni e per farlo deve anche non pensare. Ogni suo calcolo infinitesimale precede e segue l’esecuzione, nella fase di studio, memorizzazione e prova, nella razionale gestione del tempo che ha a disposizione, nella comprensione del testo che è adagiato sul leggio. Ma quando è abbandonato alla dolce carezza dei tasti, sperimenta la solitudine totale ed è in grado di trascinare l’ascoltatore nella dimensione del non pensare, del silenzio, del recupero di sé. Egli stesso si rende conto che il concerto è passato in un attimo e se ne meraviglia: per un piccolo arco di tempo ha bevuto al nettare della vita e ne è stato talmente inebriato da non ricordare nulla, così come chiunque altro che fa con passione i gesti che ama.
Il non pensare è legato a ogni tipo di ritualità, alla ripetizione di gesti o parole che aiutano ognuno di noi a uscire dalla gabbia grigia e fredda del pensiero.


Giovanni Allevi - Go with the flow

Quando un uomo non pensa il suo rumore principale diventa quello del cuore e del respiro, uniti insieme in una straordinaria poliritmia ancestrale. Due cicli discordi interagiscono, creando curve nuove e irregolari, parabole vertiginose o piane, che alimentano il fuoco dell’emozione. Un motore che ha due pistoni diversi, un elastico che si tende continuamente da più parti, assumendo strane forme, una trottola mal bilanciata che inventa, finché è in equilibrio, evoluzioni circensi.

Giovanni Allevi - Go with the flow

Ogni uomo, quando non pensa, suona, bagna, sogna, odora, scalda, cerca il contatto con le cose che vibrano, che restano umide, che inebriano, che profumano e scottano.
A me piace l’acqua, avvolgente, che rende opaca e lontana ogni cosa, annullando il tempo misurato, e che spinge in superficie con forza e grazia, o ingloba silenziosa il corpo che ha perso il suo spazio.
L’uomo deve tornare a essere soggetto assoluto della propria esistenza, vero punto di partenza di sé. Come si concilia tale visione con l’abbandono?
Credo che la grande scoperta di questo strano tempo sia che abbandono e attività non sono in rapporto antitetico.


Giovanni Allevi - Go with the flow

In realtà dobbiamo evitare di strozzare il torrente impetuoso che è in ognuno di noi, dobbiamo evitare l’inibizione a tuffarci nella danza delle cose, fosse anche il traffico cittadino.
Ma l’inibizione nasce nel pensiero solitario: la nostra piccola mente non ce la fa a contenere un universo che danza, e allora concepisce il concetto dell’ irraggiungibile, dell’impossibile, della delega a forze altrui.
Invece il non pensare è apertura e paradossalmente è comunicazione profonda con gli altri: ora che siamo di fronte, dimentichiamo i nostri ruoli, i nostri nomi e riconosciamoci come esseri umani, come miracoli. Un essere umano, chiunque sia, è il culmine cui la natura è giunta e da essa si differenzia per l’estrema imprevedibilità, per la misteriosa e prodigiosa presenza.


Giovanni Allevi - Go with the flow

Forse è possibile che più universi umani possano comunicare, al prezzo dell’abbandono di ogni costruzione convenzionale, residuo del pensiero; forse comunicare significa essere presenti l’uno all’altro, tramite tutti i canali di cui l’umana e poliedrica personalità dispone, dalle azioni al calore corporeo.

Testo di Giovanni Allevi


Giovanni Allevi - Go with the flow



Difesa dell'allegria

Dipinto di Olga Minardo
www.olgaminardo.com


La poetica "uruguaya" di Mario Benedetti "ponte" 
con la danzaterapia "porteña" di Marìa Fux



Difesa dell'Allegria

Difendere l’allegria come una trincea
difenderla dallo scandalo e dalla routine
dalla miseria e dai miserabili
dalle assenze transitorie
e le definitive

difendere l’allegria come un principio
difenderla dallo sbalordimento e dagli incubi
dai neutrali e dai neutroni
dalle dolci infamie
e dalle gravi diagnosi

difendere l’allegria come una bandiera
difenderla dal fulmine e dalla malinconia
dagli ingenui e dalle canaglie
dalla retorica e dagli arresti cardiaci
dalle endemie e dalle accademie

difendere l’allegria come un destino
difenderla dal fuoco e dai pompieri
dai suicidi e dagli omicidi
dalle vacanze e dalla fatica
dall’obbligo di essere allegri

difendere l’allegria come una certezza
difenderla dall’ossido e dal sudiciume
dalla famosa patina del tempo
dall’umidità e dall’opportunismo
dai prosseneti del ridere

difendere l’allegria come un diritto
difenderla da Dio e dall’inverno
dalle maiuscole e dalla morte
dai cognomi e dalle pene
dal caso
e anche dall’allegria






Defender la alegría como una trinchera
defenderla del caos y de las pesadillas
de la ajada miseria y de los miserables
de las ausencias breves y las definitivas

defender la alegría como un atributo

defenderla del pasmo y de las anestesias
de los pocos neutrales y los muchos neutrones
de los graves diagnósticos y de las escopetas

defender la alegría como un estandarte

defenderla del rayo y la melancolía
de los males endémicos y de los académicos
del rufián caballero y del oportunista

defender la alegría como una certidumbre

defenderla a pesar de dios y de la muerte
de los parcos suicidas y de los homicidas
y del dolor de estar absurdamente alegres

defender la alegría como algo inevitable

defenderla del mar y las lágrimas tibias
de las buenas costumbres y de los apellidos
del azar y también, también de la alegría

Mario Benedetti


La danza del corpo


"Tra santi e prostitute, tra Dio e mondo, la danza"

Cosi parla Nietzsche, dopo aver scosso tutte le figure di stabilità che Platone aveva ordinato in quell'al di là del cielo nominato "iperuranio". Ma proprio puntando verso il cielo il suo Cannocchiale aristotelico Emanuele Tesauro nel 1663 scopre che all'origine del mondo c'è "quell'arte nobilissima che è la danza di cui si dice ella esser nata da principio col mondo istesso".
In verità, prima che il divino fosse irrigidito nel concetto di Dio e il sacro separato dal profano, anche Platone conveniva che "furono proprio quegli dei che ci sono stati offerti come compagni di danza a farci dono del ritmo e dell'armonia come espressioni del piacere" (Leggi, 654 a).
Qui l'antica cultura greca consuona con quella biblica dove il salmista loda il Signore "con timpani e danze" (Sal.150,4) e dove Davide "danzava con tutte le sue forze davanti al Signore" (2,Sam. 6,14).
Fu il Cristianesimo a separare il sacro dalla danza e a irrigidire il corpo in uno spazio controllato e chiuso. Cosi Giovanni Crisostomo scrive che "Ubi saltatio, ibi diabolus" ("dove c'è la danza c'è il diavolo" [N.d.R]) mentre Ambrosio indica nella "saltationem" la via più prossima all'impudicizia.
Se poi la danza dovesse essere il modo di celebrare la festa, allora Agostino non ha dubbi: anche nei giorni festivi "Melius est arare quam saltare".
Man mano che il sacro cessa di essere il luogo d'incontro di puro e impuro, per diventare luogo di mortificazione e ascesi, man mano che la parola, la scrittura, la mente diventano i veicoli del sacro, il corpo e i suoi gesti che la danza anima passano dal regno di Dioniso a quello del Diavolo, dalle Baccanti alle Streghe del sabba.


Con il Rinascimento e la nascita della scienza moderna il corpo viene riscattato dall'inferno in cui era stato relegato dalla religione dell'anima e disposto sulla tavola anatomica come corpo disciplinato dalla descrizione del sapere medico. Alle categorie religiose bene/male, anima/corpo, sacro/profano, subentrano quelle mediche di salute malattia che consentono di recuperare la danza come "benefico movimento", purché eviti gli eccessi e accada secondo disciplina.
Atrofizzata nella ritualità delle buone maniere, la danza riappare come gesto acculturato. Ma è ormai la danza di un corpo chiuso, definito dai suoi confini con il mondo, non di un corpo aperto, grottesco, che entra ed è invaso dal mondo.
La laicizzazione del corpo non comporta quindi alcuna apertura al mondo e perciò la danza codificata di corte può essere accolta anche in ambito religioso purché, nell'esprimersi, i corpi evitino i contatti, perchè, come scrive Francesco di Sales: "I corpi umani assomigliano a dei cristalli, che non possono essere trasportati insieme, perchè toccandosi l'un con l'altro corrono il rischio di rompersi, e ai frutti che, sebbene intatti e ben preparati, si guastano, se si leccano gli uni con gli altri".



I consigli di Francesco di Sales sembrano presi alla lettera dai giovani delle nostre discoteche avvolti in una danza solipsistica, dove anche quando si mimano gli atti del coito non si spezzano le pareti dell'incomunicabilità. 

L'eccesso d'energia sprigionata dai corpi, il tentativo di compensare con i gesti l'afasia del linguaggio, il ritmo meccanico che affoga l'espressività gestuale in una cadenza senza tempo, le luci stroboscopiche che, spezzando la continuità del movimento, ne inchiodano le forme, sono la parodia della danza, dove ciò che drammaticamente trapela è l'incapacità di riportare il corpo al centro della propria esperienza. Infatti l'atmosfera apocalittica, orgiastica, ipertecnologica delle nostre discoteche in cui è ricoverata la danza, come la malattia all'ospedale e la morte al cimitero, dice di corpi che hanno rinunciato ai propri gesti per regredire a quel gesto autonomo e per tutti identico che è il ritmo, qui inteso come ritmo cardiaco, ritmo respiratorio, in cui sono rintracciabili le prime forme d'esistenza, quelle del ventre buio della madre, e quella del grido lacerante appena se ne esce. L'intenzione è di spostare le gabbie del proprio corpo oltre quelle delle convenzioni, il risultato è di ridurre il proprio corpo alla cadenza anonima del ritmo.


E così si perde il segreto della danza che è poi quello di curare una società che tende a rimuovere ciò che vive come malattia. La malattia di un'emotività che non sarà mai sistematica, la malattia di un'umanità irriducibile alle regole comportamentali che si è data, la malattia di un corpo che sfugge alla dimensione carnale che gli è stata imposta, la malattia di un'anima che non sa resistere nella gabbia dell'intelletto, la malattia di una ragione che ciclicamente abdica al suo ruolo di dominatrice repressiva dell'esperienza.

Si perchè c'è un senso in cui è possibile dire che la ragione ha costruito se stessa come ragione disincarnata, con conseguente riduzione del corpo nei confini dell'opacità della carne. E siccome la danza rifiuta il dualismo conflittuale tra materiale e immateriale, siccome non vive il corpo come antagonista dell'anima, la danza, con la semplicità del suo gesto, dissolve il tratto disgiuntivo con cui la ragione procede opponendo il vero al falso, il bene al male, il positivo al negativo, l'alto al basso, per richiamare quell'ordine simbolico (syn-ballein significa "mettere assieme") da cui proveniamo e che ancora ci abita come fondo abissale in cui la coscienza cerca di gettare la sua pallida luce.

Nella danza, infatti, il corpo incarna le produzioni del senso simbolico o per confermarle nella ritmicità rituale, o per dissolverle nella frenesia orgiastica. Ciò e' possibile perchè nella danza il corpo abbandona i gesti abituali che hanno nel mondo il loro campo d'applicazione, per prodursi in sequenze gestuali senza intenzionalità e senza destinazione che, nel loro ritmo e nel loro movimento, producono uno spazio e un tempo assolutamente nuovi, perché senza limiti e senza costrizioni. Perdendo l'aderenza alle cose del mondo, nella danza ogni gesto diventa polisemico, ed è proprio in questa polisemia che il corpo può riciclare simboli, può confonderli o addirittura abolirli. Liberandosi nella pura gestualità non intenzionata, il corpo del danzatore descrive un mondo che è al di là di tutti i codici e di tutte le relative iscrizioni, perchè nella danza l'unico segno invisibile è quello in cui il corpo iscrive se stesso tra la terra e il cielo. In questo senso la danza costituisce un mezzo per sfuggire alla serietà dei codici che ci minacciano.
Scivolando l'uno sull'altro, nella danza i movimenti del corpo non si lasciano individuare, e quindi neppure analizzare, perchè danzati. Per la rapidità dei movimenti, la danza cancella di colpo le figure appena costruite, continua creazione e costruzione del mondo, composizione dei massimamente distanti, e quindi abolizione dei sensi costruiti in questa distanza. Parodia di ogni sistema, la danza dissolve tutti i sensi che vogliono proporsi come sensi definitivi. Leggerezza del corpo che ripristina la leggerezza dei simboli, la loro fluttuazione che gioca con la gravità dei codici e col rigore delle loro iscrizioni.
Se nel linguaggio sistematico dei codici il corpo si lascia esprimere dalla razionalità, nel linguaggio simbolico e nell'eccedenza semantica fluttuante che lo connota il corpo esprime la sua emotività, ciò che lo muove. Non essendo sistematica, l'emotività non potrà mai costituirsi nel linguaggio; debordando dai segni e slittando sui significati, l'emotività non ha altra possibilità di espressione se non nell'eccedenza semantica che scivola ai confini dei codici. Per questo le società più diventano razionali, più aboliscono il linguaggio simbolico, togliendo sempre più spazio alle manifestazioni emotive che hanno nel corpo la loro radice.
Eppure non è la razionalità, ma è il fenomeno emotivo a far vivere i codici. Non basta infatti un sistema di segni perchè vi sia senso; il senso è sempre immesso da un referente emotivo, che può essere anche la paura per la decodificazione parziale o totale. Il linguaggio primitivo, che usa metafore organiche per esprimere le emozioni, parla del cuore, dello stomaco, del fegato, dei reni e in generale degli organi corporei come della sede delle reazioni emotive, e poi trasferisce questi organi fuori di sè per nominare le cose del mondo, per cui la casa ha una "faccia", il vaso una "pancia", il villaggio una "fronte"
Con ciò il corpo e le sue parti non diventano il referente o il codice di tutti i codici, ma ciò che traduce un codice nell'altro, un sentimento in un organo, un organo in una cosa del mondo. La danza è il simbolo vivente di questa continua e ininterrotta traduzione, e a partire da qui possiamo incominciare a capire quel frammento gnostico che recita: "Chi non danza non sa cosa succede".


U. GalimbertiLa danza del corpoin "XÁOS. Giornale di confine", Anno II, N.1 Marzo-Giugno 2003, URL: http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_1/4.htm




E io ho sempre ballato

Zaritè

Testo di Isabel Allende

Nei miei quarant'anni io, Zaritè Sedella, ho avuto miglior fortuna di altre schiave. Vivrò a lungo e la mia vecchiaia sarà gioiosa, perchè la mia stella - la mia z'etoile - brilla anche quando la notte è nuvolosa.
Conosco il piacere di stare con l'uomo scelto dal mio cuore quando le sue grandi mani mi risvegliano la pelle. Ho avuto quattro figli e un nipote e quelli che sono vivi, sono liberi. Il mio primo ricordo della felicità, quando ero una mocciosa tutta ossa e dai capelli arruffati, è muovermi al ritmo dei tamburi, e questa è anche la mia più recente felicità, perché ieri sera sono stata nella piazza del Congo a ballare e ballare, senza pensieri nella testa, e oggi il mio corpo è caldo e stanco. La musica è un vento che si trascina via gli anni, i ricordi e la paura, quell'animale acquattato che mi porto dentro. Con i tamburi scompare la Zarité di tutti i giorni e torno a essere la bambina che danzava quando a malapena sapeva camminare. Pesto per terra la pianta dei piedi e la vita mi sale lungo le gambe, percorre lo scheletro, si impossessa di me, mi libera dall'inquietudine e mi addolcisce la memoria. Il mondo rabbrividisce. Il ritmo nasce nell'isola sotto il mare, scuote la terra, mi attraversa come un lampo e se ne va in cielo portandosi via le mie pene affinché Papa Bondye le mastichi, le ingoi per lasciarmi pulita e appagata. I tamburi vincono la paura. I tamburi sono l'eredità di mia madre, la forza della Guinea che è nel mio sangue. Nulla allora può sopraffarmi, divento  devastante come Erzuli, loa dell'amore, e più veloce della frusta. Tintinnano le conchiglie alle mie caviglie e ai polsi, domandano le zucche, rispondono i tamburi djembe con la loro voce di bosco e i timpani con la loro voce di metallo, invitano i djun djun che sanno parlare e rimbomba il grande maman quando lo colpiscono per chiamare i loa. I tamburi sono sacri, tramite loro parlano i loa.
Nella casa in cui sono cresciuta nei primi anni, i tamburi rimanevano zitti nella stanza che condividevo con Honorè, anche lui schiavo, ma spesso uscivano a passeggio. Madame Delphine, la mia padrona di allora, non voleva sentire rumori da neri, ma solo i gemiti malinconici del suo clavicordo. Il lunedì e il martedì dava lezioni a ragazze di colore e il resto della settimana insegnava nelle dimore dei grands blancs, dove le signore disponevano dei loro strumenti dato che non potevano usare quelli che suonavano anche le mulatte. Imparai a pulire i tasti con il succo di limone, ma non potevo fare musica perché madame ci proibiva di avvicinarsi al suo clavicordo. Né ne avevamo bisogno. Honoré poteva far sgorgare la musica da una pentola, qualsiasi cosa nelle sue mani aveva tempo, melodia, ritmo e voce; i suoni erano nel suo corpo, li aveva portati dal Dahomey. Il mio giocattolo era una zucca vuota che facevamo suonare; in seguito mi insegnò ad accarezzare con delicatezza i suoi tamburi. E questo sin dall'inizio, da quando ancora mi doveva tenere in braccio e mi portava ai balli e ai riti vudù, in cui lui scandiva il ritmo con il tamburo principale affinché gli altri lo seguissero. Così ricordo.
Honoré sembrava molto vecchio, benchè a quel tempo non avesse più anni di quelli che ho io ora, perchè gli si erano raffreddate le ossa. Beveva tafia per sopportare il dolore a ogni movimento, ma più che quel liquore aspro, per lui la medicina migliore era la musica. Al suono dei tamburi, i suoi gemiti si trasformavano in risate. Honoré a malapena riusciva a pelare le patate per il pranzo della padrona con le sue mani deformi, ma quando suonava il tamburo era instancabile e se si trattava di ballare, nessuno alzava le ginocchia più in alto, né scuoteva la testa con più forza, né dimenava il culo con maggior soddisfazione.
Quando non sapevo ancora camminare, mi faceva danzare da seduta, e non appena fui in grado di reggermi sulle gambe, mi invitava a perdermi nella musica come in un sogno. "Balla, balla, Zaritè, perchè lo schiavo che balla è libero...finchè balla" mi diceva. E io ho sempre ballato.





Io guardo un punto


Io e il mio Punto

Testo di Ascanio Celestini

Io guardo un punto. Un punto laggiù. E' un punto preciso non è uno qualunque. Non potrei indicare le coordinate, né calcolare la distanza o indovinare la grandezza, ma si tratta di un punto che saprei distinguere da qualsiasi altro. Non sapevo che c'era un punto laggiù. Poi, forse, guardando qualcos'altro, mi è cascato l'occhio sul punto. Non mi ricordo cos'altro stavo cercando perché il punto è diventato immediatamente la cosa principale.
Potrebbe anche essere che stessi guardando un altro punto, ma quello laggiù è stata subito un'altra cosa per me. Era il mio punto. Eravamo solo io e il punto. Noi due soli come naufraghi. Poi è arrivato qualcuno. Uno che si è messo a guardare il mio punto.
Ho cercato di spiegargli che era il mio, ma lui ha estratto una macchina fotografica e si è fotografato con il punto in prospettiva. Mi ha mostrato la foto dicendo "sono io e il mio punto", come per dimostrare all'universo intero che è stato lui il primo a vedere il punto. Io non avevo una foto precedente alla sua per svelare la menzogna.
Lui ha incominciato a mostrare il ritratto col punto e subito è arrivato un altro: "Può fotografare anche me col punto?" gli ha chiesto. Allora anche io avrei potuto chiedere di farmi fotografare col mio vecchio punto, sarei diventato comunque il terzo, che non è un pessimo risultato, ma poi ne sono arrivati tanti altri e così mi sono disamorato, ho voltato le spalle al punto e mi sono messo a parlarne senza guardarlo. (...) L'ho fatto per un consumato amore che si è trasformato in rabbia. E' intollerabile pensare che il punto può essere visto da tutti senza smettere di essere lo stesso punto di prima (...).
Un giorno, se avrò coraggio, mi volterò, smetterò di parlare del punto e ricomincerò a guardarlo. O forse mi metterò in viaggio verso il punto per vederlo da vicino. Lo farò anche se ho paura che avvicinandomi al punto...si affievolirà fino a scomparire.  (... ) Mi emoziona parlare del punto (...).